Comunicare nelle Alpi del Sud
Lingue di montagna
La linguistica alpina si confronta, da un lato, con una toponomastica specifica e comune e dall’altro con l’articolazione delle Alpi in grandi famiglie linguistiche. La prima è relativamente unitaria, con radici identiche da una parte all’altra dell’arco alpino, mentre le varie lingue parlate rivelano sistemi differenti dotati di un’origine comune.
Una toponomastica, più lingue
Il paradosso è solo apparente: infatti si può dire che i primi popolamenti alpini hanno imposto sulle montagne una prima carta toponomastica, conservata per evidenti ragioni pratiche da chi si è successivamente insediato. Un corso d’acqua, una vetta, una caratteristica del terreno, una pianta particolare o altri elementi riconoscibili avevano ricevuto una denominazione conservata con cura nella misura in cui garantiva un punto di riferimento comune, anche se il senso originale del toponimo si era perduto nel tempo.
La toponomastica si arricchisce dei contributi che arrivano dalla frequentazione stagionale di elementi provenienti da luoghi lontani (in occasione delle transumanze, in particolare) e dal passaggio periodico di mercanti e pellegrini: si viene così a formare un vocabolario toponomastico condiviso con gli abitanti stanziali. D’altra parte è interessante notare che questo repertorio di nomi si applica prevalentemente a luoghi che sono frequentati di fatto sia dagli autoctoni che dai viandanti. Così le cime inaccessibili, così come le gole impenetrabili non ricevono, se le ricevono, che denominazioni piuttosto generiche e banali. I vari ghiacciai bianchi, le guglie appuntite, i torrenti possenti, per esempio, non sono che constatazioni ripetitive di luoghi osservati da lontano. Al contrario, quando un sito è abitato e vissuto, beneficia allora di una vera e propria identità: il ghiacciaio dell’Autaret è quello sul quale è stato costruito un piccolo monumento votivo, la Rocca dei Tre Vescovi è il luogo dove si incontrano tre diocesi, il vallone dei Fontanili si caratterizza per la presenza di molte sorgenti, eccetera…
Ogni gruppo umano che ha frequentato le montagne per un motivo diverso, ha dato un contributo all’arricchimento del patrimonio toponomastico secondo il principio per cui «ciascuno nomina solo ciò che è rilevante per sé, e più un luogo è frequentato più i nomi lo descriveranno nel dettaglio». I cartografi militari, così come gli alpinisti, hanno quindi contribuito a moltiplicare i nomi di luogo, in siti conosciuto soltanto da loro, sovente senza distinguersi per grande originalità e per lo più ignorando le basi linguistiche locali, a vantaggio del proprio vocabolario urbano.
Gli oronimi, gli idronimi e tutti gli altri…
I gruppi umani che a partire dall’età neolitica, con la fine della grandi glaciazioni, si sono lanciati nell’avventura dell’esplorazione e della colonizzazione delle valli alpine, hanno nominato in modi differenti i vari aspetti del paesaggio. Nominare è com-prendere e fare proprio un territorio, tant’è vero che la stesura sul territorio di una nuova rete toponomastica segnala agli studiosi nello stesso tempo la scoperta di un sito e l’insediamento di nuovi abitanti. In effetti ha senso conferire un nome a un luogo solo nella misura in cui quest’ultimo è destinato a diventare famigliare: diventa allora utile trovare un modo per indicarlo con precisione. Inoltre il toponimo deve fornire indicazioni utili sul sito che designa, per non ridursi alla traduzione del semplice stato d’animo del suo scopritore: il nome offre così un indizio del suo aspetto reale, che può essere relativo alle risorse, all’accessibilità, alla sicurezza o ad altri aspetti ancora del luogo.
A proposito di toponomastica “oggettiva”, è significativo sottolineare l’iperfrequenza, da un estremo all’altro della catena alpina, del toponimo ALP, sotto le differenti forme alp, arp, aup, app e con le varianti alpilles, arpette, arpillon, aupette, aups, aulph, eccetera. Strabone e altri geografi dell’antichità si interrogavano già sull’enigma di questa radice onnipresente, che sembrava non avere nulla a che fare con il latino. Per i linguisti contemporanei la soluzione è fuor di dubbio: ci troviamo di fronte a una radice di gran lunga anteriore ai popolamenti indoeuropei avvenuti in Europa occidentale nel corso del IV e del V secolo a.C.. Il toponimo, che avrebbe finito per dare il nome all’intera catena ALPina, in origine designava i posti adatti a ospitare le greggi transumanti. Le lingue altaiche conservano una radice alp che indica tutto ciò che è elevato, collocato in quota… Si può dunque concludere che il nome stesso delle Alpi è un’eredità lasciataci dalle prime popolazioni che ne hanno frequentato le valli e i versanti, nominandone i settori migliori dal loro punto di vista di pastori transumanti.
Un altro esempio di persistenza di radici linguistiche estremamente antiche, che ormai non riusciamo più a ricondurre immediatamente a un significato, è fornito dalla sillaba DOR, DUR, che si trova presente in una gran quantità di nomi di corsi d’acqua: Durance, Doron, Dora (curiosamente trascritto Doire in francese), Drance, per esempio. Un’altra radice idronimica, AR, condivide con la prima lo spazio alpino, spesso accostata a una sorta di qualificativo che permette di distinguere gli uni dagli altri dei corsi d’acqua che diversamente sarebbero chiamati tutti semplicemente fiumi.
La toponomastica costituisce un ramo importante delle discipline linguistiche. Se qualche volta può portare a qualche chiarimento sull’etimologia e sul significato originario della denominazione di un qualche luogo, non è tuttavia questo il suo principale obiettivo. Infatti i censimenti, gli inventari e la cartografia che permette di stabilire sono preziosi: «Dando man forte alla geografia umana deve aiutare a ricostruire la storia del popolamento e dello sfruttamento di un territorio» (Albert Dauzat).
Sembra evidente che in ambiente alpino si incontreranno in abbondanza radici linguistiche relative sempre agli stessi luoghi: rocce, cime, valli, precipizi, ruscelli, torrenti, e così via la fanno da padroni e il senso preciso del nome che ricevono è destinato a rimanere vago. Invece le indicazioni fornite da questi nomi generici possono aprire delle ricche prospettive antropologiche. È per questo che non si può che disapprovare i travestimenti, talvolta divertenti ma sempre maldestri, che la cartografia ha affibbiato ad alcuni toponimi. Per esempio una cima della Valle Stura è stata chiamata Vausaber perché l’informatore, che non conosceva il nome della montagna, aveva risposto: «Vau a saber» («Vallo a sapere!») in patois. Altri esempi sono un Giàs di Ghigo è diventato Jus de gigot (“succo di cosciotto”) e un Col de Mille Aures (Colle dei mille venti) è stato trasformato nel Col du Milord (Colle del Milord), dove una leggenda vuole sia sepolta una giovane turista inglese morta in prossimità del valico! Queste “attrazioni toponimiche” (Albert Dauzat), che consistono nell’avvicinare due consonanti vicine, ma che appartengono a due lingue diverse, resteranno tuttavia come testimonianza di una conquista del tutto nuova dello spazio alpino da parte di militari ed escursionisti.
Un crocevia linguistico
Il posizionamento particolare delle Alpi nel cuore dell’Europa, dove separano lo spazio mediterraneo, tagliato dalla penisola italiana, dall’area atlantica, alla quale si accede risalendo il corso del Rodano, conferisce alla catena alpina uno status originale. Lungi dall’essere una specie di barriera fra le popolazioni dei due versanti, le Alpi sono state e restano tuttora un luogo di scambi e di incontri o, all’occorrenza, un sito d’asilo e di rifugio.
Il fenomeno delle transumanze stagionali fra le pianure provenzali e padane e gli alpeggi in quota mette in relazione, in maniera continua, delle popolazioni che arrivano a dar vita, attraverso i contatti, a una cultura specifica, fondata su una rete di vincoli solidali permanenti, capaci di resistere alla stagionalità degli incontri di persona. Si spiegano così delle autentiche isole linguistiche, dove si impiega correntemente una lingua non locale. L’esempio della Valle di Entraunes, dove il francese è impiegato come lingua scritta e parlata, è un lascito delle tradizioni antichissime che legavano la alta valle del Var e i suoi pascoli agli allevamenti ovini del basso corso del Rodano. Anche la permanenza del provenzale nelle valli piemontesi della provincia di Cuneo, si può spiegare sulla base di strette relazioni storiche e economiche fra i due versanti, più forti dei cambiamenti di nazionalità.
Le tre valli del Parco delle Alpi Marittime fanno parte delle quindici valli piemontesi dove si parlano varianti del provenzale alpino, o “occitano”. In Italia l’occitano è soggetto a tutela ai sensi della Legge n. 482/1999, “Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche”. Si tratta di una legge emanata in un momento in cui le parlate locali sembravano destinate a rapida sparizione nell’arco di pochi decenni. Negli ultimi anni, tuttavia, il regresso dei dialetti sembra aver rallentato, dando così il tempo di maturare a una nuova sensibilità verso la diversità linguistica, oggi considerata come un patrimonio degno di salvaguardia. Già a partire dagli anni ’60, però, si è assistito nelle valli a un movimento di recupero e valorizzazione delle lingue e della musica tradizionali, che oggi costituiscono un importante elemento di arricchimento culturale. La ghironda, l’organetto e il galoubet sono così tornati ad animare feste e serate di balli e canzoni tradizionali.
Se i dialetti occitani, soprattutto il gavot o provenzale alpino, restano la lingua vernacolare, il bisogno di scambi economici e culturali ha condotto alla pratica di altre lingue indispensabili per spostarsi e lavorare: le lingue ufficiali e altre ancora, indispensabili per spostarsi e per lavorare. Così nell’Ubaye, per preparare i giovani alla futura migrazione verso il Messico, si studiava lo spagnolo come lingua straniera: è un buon esempio dell’adattabilità degli alpigiani. Ancora, i pastori di Roaschia non parlavano soltanto il roaschino, ma conoscevano perfettamente tutti i dialetti della pianura da Cuneo fino al Monferrato, dove si spingevano con le loro greggi. Come se non bastasse, parlavano fra loro una lingua speciale, per non farsi capire dagli altri: un caso davvero notevole di poliglossia!
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