Anatomia dell’economia alpina

Oltre le semplificazioni

Lo schema adottato dagli economisti, che divide le attività produttive in agricoltura, industria e servizi, non riesce a cogliere in tutti i suoi aspetti l’economia alpina tradizionale, così come si è sviluppata e mantenuta a lungo nelle valli delle Marittime e del Mercantour. Non tiene conto, infatti, di due importanti risorse : il prelievo diretto (di legna, frutta, erbe o selvaggina) e il contributo dell’emigrazione stagionale.

Uno sguardo più attento

A lungo l’economia alpina è stata considerata sinonimo di miseria. Ma questo giudizio così severo è ricavato sulla base di parametri impropri. Un esempio? Viene considerato come un criterio per valutare il rendimento dell’agricoltura il numero degli animali da tiro posseduti dai contadini, protagonisti delle coltivazioni in pianura, ma quasi assenti in montagna, così come la loro evoluzione meccanica, i trattori.

In prima battuta, si era letta questa assenza come sintomo di una scarsa resa dei campi: il contadino di montagna, dati i magri ricavi, non si sarebbe mai potuto permettere le stesse “comodità” dei colleghi di pianura. Ma una simile conclusione tradisce una totale ignoranza dell’ambiente alpino! Infatti in montagna la pendenza dei terreni, fortemente acclivi, la parcellizzazione dei lotti, la loro scarsa estensione, la difficoltà di accesso ai campi hanno reso semplicemente impossibile l’impiego dei mezzi e delle tecniche applicati in pianura.

Secondo una logica analoga, si sottolinea volentieri la debolezza del tessuto industriale alpino, tralasciando il peso che l’industria idroelettrica ha giocato nella sua fase di massima espansione. Dei comuni talvolta di piccole dimensioni, come Saint Martin-Vésubie o Entracque, sono stati fra i primi a beneficiare di centraline le cui turbine alimentavano l’illuminazione pubblica e privata e fornivano l’energia necessaria al funzionamento di piccole industrie.

Tuttavia è in gran parte vero che la distanza dai grandi centri urbani, le difficoltà di comunicazione e la scarsità di risorse naturali hanno privato le vallate delle Alpi del Sud di quel destino industriale che sarà invece destinato al Delfinato e alla Savoia.

Per quanto riguarda il settore dei servizi, ci si è limitati a constatare il suo sviluppo modesto. Ma in questo modo si ignora il peso dei servizi nell’economia tradizionale: e pensare che era questo uno degli ambiti in cui trovava impiego chi migrava durante la stagione invernale, riportando a casa la maggior parte del denaro liquido che circolava nelle valli. In tempi recenti, l’industria turistica ha poi invertito i flussi di contante: non è più l’alpigiano a recarsi nelle città per lavorare e portare a casa un piccolo capitale, ma i cittadini che si spostano in montagna per investire denaro nel tempo libero. Così, senza per questo essere un modello di prosperità eccezionale, l’economia alpina dimostra di aver saputo sfruttare con successo e in maniera originale nel corso dei secoli le risorse a disposizione.

Per esempio, tra la metà del Quattrocento e la fine del Cinquecento a Entracque, in Valle Gesso, un gruppo di notabili riesce a accumulare patrimoni da investire nelle attività dell’allevamento ovino, della manifattura e del commercio della lana: i “nuovi ricchi” entracquesi hanno un patrimonio medio all’incirca doppio rispetto a quella dei benestanti del piano. Tra Settecentoe Ottocento il paese è al vertice del settore allevamento a livello regionale, con «600 vacche, 150 vitelli era seconda solo a Cuneo e a Villafalletto, ma era la presenza di 1000 pecore a sopravanzare ogni altro comune , quale Sambuco (500 pecore), Roaschia (solo 100) o i comuni della Valle Maira» (Alessandra Demichelis). Inoltre l’industria laniera all’epoca conta in paese ben cinquanta opifici, che impiegano trecento operai. Addirittura, la lana entracquese a un certo punto non basta più e occorre importarla dal contado di Nizza, da Briga e da Marsiglia, che diventano le rotte abituali dei mercanti di lana. L’industria tessile di cui vengono gettate le basi sotto la restaurata dinastia sabauda è destinata a fare di Entracque una vera e propria “isola laniera” sulle Alpi Sud-occidentali fino ai primi del Novecento. Trova qui una volta di più conferma l’immagine delle Alpi come terre capaci nel corso dell’Età Moderna di produrre ricchezza e tenori di vita anche superiori rispetto alle zone rurali di pianura, un’evidenza che contribuisce a sfatare il mito negativo della millenaria povertà alpina.

Il territorio utilizzato al meglio

Lo stile di vita tradizionale, che ha modellato nei suoi tratti essenziali il paesaggio dei massicci montuosi e delle vallate, era fondato su una meticolosa valorizzazione delle risorse del territorio, sfruttate in modo da ottenerne la resa ottimale. A prezzo di un’organizzazione dello spazio che non lascia nulla al caso, di continui lavori di manutenzione, di una regolamentazione puntuale e di un calendario dei lavori impegnativo ma scrupolosamente osservato, gli alpigiani assicuravano il sostentamento delle proprie famiglie.

Le terre di proprietà o quelle prese in affitto derivano dai primi dissodamenti medievali e il loro sfruttamento è rimasto inalterato nel tempo. Si può dire che le tecniche e i metodi di lavoro della terra in montagna siano rimasti gli stessi dalla fine dell’Antichità alla rivoluzione industriale dell’Ottocento. Durante la visita al Museo della Civiltà della Segale di Sant’Anna di Valdieri, per esempio, colpisce l’accostamento fra miniature medievali che ritraggono contadini intenti a battere dei cereali e le foto degli alpigiani che compiono la stessa operazione ai primi dell’Ottocento: gli strumenti impiegati sono esattamente gli stessi, le cavaglie (due bastoni di legno tenuti insieme da un legaccio di cuoio).

Non si tratta di una lotta contro la natura, ma piuttosto dell’inserimento della popolazione umana all’interno di un ambiente che le persone modellano in vista della soddisfazione dei propri bisogni essenziali. «Il comportamento di chi vive in quota richiede degli approcci etnologici particolari dove bisogna tener conto sempre di due fattori: la difficoltà  oggettiva, rappresentata dall’inclinazione dei terreni, dalla quota, dal clima severo… e l’intelligenza (individuale o collettiva) che occorre mettere in campo per rimediare agli ostacoli naturali» (Jean-Pierre Laurent). Per quanto riguarda le Alpi occidentali, l’economia e la cultura sono state studiate nel dettaglio soprattutto nel Queyras e nelle Alpi Marittime italiane, ma le conclusioni tratte dagli studiosi rispecchiano bene la realtà di tutte le Alpi del Sud.

Un primo punto importante su cui soffermarsi è quello dell’organizzazione concentrica degli spazi dedicati ciascuno a una diversa attività. In alto troviamo la zona degli alpeggi, che dominano il versante meridionale, ben esposto e protetto dai venti freddi. Al centro di questo immaginario bersaglio troviamo il paese, che costituisce il perno del territorio. Immediatamente al di sotto dei pascoli, di solito corre il canale principale da cui si staccano i canali secondari che permettono l’irrigazione dei prati a sfalcio destinati a fornire durante l’inverno il fieno per il bestiame. Procedendo ancora verso dall’esterno verso l’interno, appena fuori dall’abitato ci sono i campi dove si producono cereali e ortaggi per l’alimentazione delle persone. A ridosso delle case, disposte assecondando le irregolarità del terreno, si trovano infine gli orti e i frutteti, che circondano il paese. Appena a valle dell’abitato, in alcuni casi si installano le attività proto-industriali (mulini, manifatture per lavorazione della lana, eccetera). Le strutture e gli edifici collettivi (forni, fontane, lavatoi, chiese, eccetera) sono invece distribuiti all’interno del centro abitato.

L’organizzazione sociale

Adattato ai vari contesti, questo schema empirico, ma molto funzionale lo si può ritrovare nei suoi tratti essenziali quasi ovunque sulle Alpi meridionali. Una simile struttura condivisa dello spazio vissuto implica il coinvolgimento attivo dell’intera comunità di villaggio, che si traduce sia in forme di solidarietà permanenti che nella redazione di regolamenti comunali che è compito della guardia campestre far rispettare.

Secondo un principio del diritto medievale, il diritto di banno (da cui il termine italiano “bando”) è appannaggio dell’autorità che può imporre divieti e diritti che vanno rispettati dalla comunità sotto la pena, per chi contravviene alla legge, di essere “bannato”… ovvero “bandito”, messo al bando. Questo stupefacente istituto giuridico, sopravvissuto in Francia fino agli anni ’60 del Novecento, ha contribuito probabilmente a mantenere a lungo il modello socio-culturale di cui garantiva il rispetto.

L’affissione dei banni (bandi) annuncia la scadenza a breve termine di un contratto la cui validità, salvo che qualcuno non vi si opponga in tempo, diventerà inattaccabile. L’assegnazione di una bandita (un lotto di terreno messo al bando) vieta a chiunque, tranne all’assegnatario, di sfruttarne le risorse. Il forno o il mulino bannali erano quelli il cui utilizzo era obbligatorio (e a pagamento): chi non li utilizzava diventava un bandito e non poteva più frequentare il paese e i suoi immediati dintorni (in francese la periferia di una città è la sua banlieu, etimologicamente il “luogo dove vige il banno”).

La comunità del villaggio detiene le risorse collettive di cui organizza la gestione: è il caso, per esempio, degli alpeggi e delle foreste. Lo sfruttamento di queste risorse è sottoposto a regole e controlli, al fine di garantirne il rinnovamento nel tempo. Sotto la forma di permessi o divieti, il pascolo degli animali viene consentito o proibito. Il numero degli animali è regolamentato e certe specie particolarmente impattanti possono addirittura essere vietate, come le capre, che devastano il manto vegetale. Anche raccolta del legno, la potatura degli alberi, la raccolta dei frutti del bosco, la caccia con le armi e con le trappole sono soggette a una normativa scrupolosa.

La conseguenza più evidente di questa organizzazione della vita collettiva è lo sviluppo fra le popolazioni alpine di un modello politico che si può considerare come una forma embrionale di democrazia. In molti casi è infatti l’assemblea dei capi famiglia che, convocata dal suono della campana, si riunisce per prendere le decisioni comunitarie la cui applicazione è affidata ai suoi eletti. A Entraunes questa assemblea prende il nome di Tribunal e si riunisce sull’acciottolato della chiesa.

Qualcuno ha intravisto in questo tipo di amministrazione collettiva dei beni e della giustizia e nella messa ai voti della ripartizione del carico fiscale imposto dall’autorità, gli elementi basilari di una forma di governo autenticamente democratica (Jean-Jacques Rousseau).

Commercio e artigianato

Se l’agricoltura è senza dubbio l’occupazione che richiede più manodopera e più tempo, tutte le comunità alpine dispongono anche di reti commerciali e di laboratori artigianali che forniscono gli strumenti e gli attrezzi indispensabili alla vita domestica e al lavoro nei campi.

Quando gli insediamenti hanno delle dimensioni troppo ridotte, produzione, la vendita e la riparazione degli attrezzi è esercitata da artigiani-commercianti itineranti. Venditori porta a porta, maniscalchi, addetti alla raccolta del latte delle cooperative casearie, distillatori ambulanti e altri professionisti, col loro muoversi sul territorio tessono dei legami stretti fra comunità separate a volte da grandi distanze. Infatti durante il periodo estivo, quando le strade sono praticabili, portano e scambiano informazioni, notizie, pettegolezzi, facendosi messaggeri e ambasciatori fra i vari paesi.

Alcuni prodotti dovevano per forza essere importati (per esempio il sale, il vino, il tabacco, la polvere da sparo, …) in cambio di altri beni fabbricati per l’esportazione (come drappi, lana, pelli, …). Alcuni flussi di scambio non portano che dei magri guadagni, ma contribuiscono comunque alla vitalità di un’economia alpina che, a uno sguardo più approfondito, si rivela meno autarchica di quanto non si credesse in passato.

Viene spesso evocata la difficoltà della vita rurale in montagna e la povertà degli alpigiani. Ma per lo più povertà non è necessariamente sinonimo di miseria. Si tratta piuttosto di un fragile equilibrio fra i bisogni essenziali e la loro soddisfazione, che crea una società di eguali all’interno della quale diversi gruppi (famiglie allargate, confraternite) si mobilitano per arginare le situazioni di difficoltà (infortuni, malattie, stagioni sfavorevoli, …).

Se ne parla il meno possibile, ma ci sono: sono i commerci illegali legati alla prostituzione e al contrabbando contro i quali si scagliano le autorità religiose e le forze dell’ordine. Dietro alla facciata del “lavoro domestico” molte ragazze vengono sfruttate da degli “imprenditori”, che dirigono e controllano anche bande di bambini dei due sessi dediti all’accattonaggio e al furto. La loro piccola taglia fa sì che i bambini siano inoltre adatti alla pulizia dei camini delle fabbriche e della case. Anche la figura del piccolo spazzacamino è ormai entrata a far parte dell’immaginario collettivo legato alla montagna.  

Quanto al contrabbando, in pratica si tratta di una voce a tutti gli effetti dell’economia tradizionale. Incoraggiato da frontiere fiscali e amministrative che non tengono conto delle realtà sociali e delle necessità economiche delle popolazioni alpine, continua fino agli anni ’60 del Novecento, talvolta raggiungendo livelli di scambio di merci e denaro insospettabili. Moralmente, giuridicamente e fiscalmente condannato dal sistema, il commercio illegale ne fa comunque parte: è il suo lato sommerso.

Sito realizzato nell'ambito del PIT "Spazio transfrontaliero Marittime Mercantour" Programma ALCOTRA 2007-2013 e rivisto e aggiornato con il progetto: