Abitare nelle Alpi del Sud
Borgate, paesi e città
Gli insediamenti umani in ambiente alpino danno sempre prova di un equilibrio, nato dall’esperienza e perfettamente efficace, fra la necessità di abitare tutto l’anno dei siti spesso inospitali, talvolta addirittura pericolosi, e i metodi messi in pratica per garantirsi un minimo di sicurezza e comodità.
Nonostante variazioni importanti di quota e di clima, da un capo all’altro dell’arco alpino, le soluzioni escogitate per vivere in montagna sono simili ovunque.
Borgate, paesi e città
Si possono distinguere gli insediamenti isolati, spesso cuore e centro di un’intera area sfruttata per il pascolo e per l’agricoltura, e gli insediamenti aggregati, che chiamiamo borgate o villaggi, a seconda della loro estensione e importanza, oppure paesi e città, quando sono dotati delle principali funzioni economiche, amministrative o strategiche.
Talvolta si è tentato di spiegare la varietà dei modelli di insediamento attraverso un’analisi dell’efficienza dell’approvvigionamento, in particolare di acqua, o in base alla cultura dei primi abitanti, che ne hanno determinato la posizione e la struttura. In un caso, la forma dell’abitato è strettamente correlata alla disponibilità di risorse idriche e alimentari, nell’altro è legata piuttosto alla tradizione costruttiva locale. Le due spiegazioni prese singolarmente non danno ragione della multiforme varietà dei modelli abitativi: piuttosto la chiave per comprenderla risiede proprio nel gioco fra le costrizioni ambientali, le tecniche e i materiali a disposizione in un dato luogo e periodo e la fantasia degli abitanti.
Così le zone calcaree, ricche di risorgenze, favoriscono la dispersione degli insediamenti, raccolti intorno ai punti-acqua, mentre la scarsezza delle fonti su terreni a roccia cristallina obbligherebbe a una maggiore concentrazione degli abitati, disposti lungo il corso dei fiumi (André Siegfried).
Alcuni studiosi hanno poi interpretato gli abitati sparsi come la perpetuazione di un modello insediativo ereditato dall’antichità romana, quello della villa, mentre concentrazioni di tipo urbano discenderebbero dai borghi, unità difensive introdotte nell’Europa meridionale dalle popolazioni germaniche (Albert Dauzat).
La coesistenza, nelle Alpi, di entrambi i modi di abitare, non consente di elaborare uno schema teorico universalmente valido. Di contro, lo studio dei diversi modelli costruttivi ci insegna molto sulla varietà delle risposte culturali umane nel corso dei secoli.
L’inverno e il pendio
La stagione fredda e i pendii ripidi sono due dei principali fattori di criticità di cui occorre venire a capo se si vuole abitare e vivere in montagna tutto l’anno. Il clima alpino, con la sua stagione vegetativa tanto più breve quanto più aumenta la quota, lascia poco tempo per i lavori agricoli che garantiscono le scorte necessarie a passare il periodo invernale. Il celebre modo di dire del Queyras: “Otto mesi d’inverno, quattro mesi di inferno”, descrive bene la situazione di tutto l’arco alpino oltre una certa quota, dove nevicate tardive e gelate precoci costringono a uno sforzo intenso nei campi concentrato nel periodo che va da giugno a settembre.
La conseguenza della necessità di accumulare scorte è evidente nella struttura delle abitazioni tradizionali: gli spazi deputati allo stoccaggio delle scorte (legna, fieno, paglia, granaglie, legumi, carni salate e frutta secca) occupano infatti una parte considerevole dei volumi costruiti. Occorre poi considerare le varie tipologie di seccatoio (balconi sotto tettoia sulla facciata delle case, locali esposti a sud nel sottotetto) che ospitano i prodotti non ancora giunti a completa maturazione al momento del raccolto. Capita così che meno di un terzo della casa sia deputato ad accogliere le persone e gli animali. Si può infatti leggere la casa alpina come la sovrapposizione di due grandi contenitori: «il primo, per metà incassato nel pendio, contiene gli esseri viventi - gli uomini, le donne, i bambini e gli animali, loro compagni di vita; il contenitore superiore, costituito di tronchi impilati, coperto di legno, dotato di uno spazio coperto sulla facciata ugualmente rivestito di legno, è lo spazio dove si immagazzinano il fieno, il grano e la paglia» (Jean-Pierre Laurent).
La lunga stagione invernale limita le attività e i movimenti e costringe gli alpigiani a passare la maggior parte della giornata al chiuso, dedicandosi a varie attività, fra le quali l’istruzione dei più giovani. Gli spazi di vita sono spesso molto ridotti e condivisi da persone e animali, in quella che viene chiamata “coabitazione”. Lo studio di questa pratica, ben documentato per quanto riguarda le Alpi del Nord, è stato un po’ trascurato nelle Alpi meridionali. Tuttavia ci sono rimaste diverse descrizioni, come quella del 1900, relativa a Saint-Dalmas le Selvage: «A queste quote, i lunghi mesi dell’inverno sono duri da passare. (…) Chi rimane in paese è costretto dal freddo a trascorrere la maggior parte del tempo nelle stalle, dove la temperatura è sopportabile» (Victor de Cessole).
Nelle case di montagna, il fuoco è indispensabile per cucinare ancora prima che per scaldare. Le testimonianze di chi ha sperimentato la coabitazione con gli animali (le ultime risalgono agli anni ’60 del Novecento) evocano tutte il calore umidiccio prodotto dalle due o tre vacche della stalla, fino a sei nelle case delle persone più abbienti. Di solito c’era anche qualche pecora, il cui vello spesso assorbiva una parte dell’umidità. Gli animali e non il fuoco erano quindi la principale fonte di calore.
Bisogna poi considerare che il focolare o la stufa costituivano anche dei pericoli non da poco: una semplice scintilla bastava per infiammare i gas prodotti dalla fermentazione del fieno. Le fiamme si sviluppavano in fretta, comunicando l’incendio alle pareti di legno e alle travature del tetto. Per limitare il rischio di una rapida propagazione a tutto l’abitato, molti regolamenti impedivano la costruzione di case le une addossate alle altre, imponendo che fossero mantenuti degli stretti passaggi fra una casa e l’altra. Ciò nonostante, durante l’inverno del 1929, una buona parte di Saint-Étienne de Tinée è stata bruciata dalle fiamme. Al momento della ricostruzione è stato emanato un provvedimento comunale, tuttora in vigore, che vieta l’utilizzo di scandole di larice per la copertura dei tetti e impone l’utilizzo di lamiere ondulate.
La pendenza accentuata dei terreni è un’altra fonte di preoccupazione per gli abitanti della montagna. Oltre al tempo in più e allo sforzo supplementare che richiede per qualsiasi tipo di spostamento e trasporto, obbliga a speciali lavori di contenimento e manutenzione per far sì che le terrazze coltivate non vengano dilavate a valle. Muri di sostegno, scarpate piantate ad alberi e canali per deviare le acque sono provvedimenti indispensabili, ma non sufficienti per impedire il progressivo impoverimento della terra. Pertanto occorreva riportare periodicamente sui terrazzamenti posti più in alto la terra scivolata a valle nel frattempo, il tutto trasportando il materiale sulle spalle, dentro alle gerle.
In alcuni casi, l’inclinazione e il suolo instabile si alleano per dare origine a smottamenti, frane e valanghe anche di proporzioni catastrofiche. I siti più a rischio sono ben noti alle popolazioni locali, ma non c’è luogo che possa essere considerato del tutto al sicuro. Nemmeno insediarsi sul fondovalle è un’opzione priva di rischi: qui la minaccia maggiore è costituita dalle piene stagionali dei torrenti, che possono essere ugualmente devastanti.
Rendere sicuri gli abitati, organizzare gli spostamenti
Una soluzione piuttosto efficace consiste nel raggruppare le case su siti particolarmente sicuri, come gli speroni rocciosi che si staccano dal pendio principale e dominano le vallate. Il loro accesso principale, una sorta di stretto risalto sul pendio, è facilmente difendibile e la rete viaria principale corre in alto, allo stesso livello dei paesi. Villaggi come Venanson, Rimplas o Moulinet sono esempi perfetti di questa soluzione abitativa. È soltanto più tardi, quando si decide di costruire delle nuove strade sul fondovalle, che questi centri diventano i mitici villaggi arroccati. In effetti “arroccati” lo sono per davvero, visti dal basso, ma questa nuova situazione di sviluppo dei traffici e delle comunicazioni a bassa quota provoca in breve un fenomeno di “disarroccamento”: le nuove strade attirano a valle tutte le attività legate ai trasporti, ai servizi, alla ricettività. A questo proposto è esemplare il caso di Fontan, che altro non è che il risultato del “disarroccamento” di Saorge, imposto da un’ordinanza del re nel 1616, quando viene messa in funzione la Route royale che attraversa le gole della Val Roya. L’iniziativa è in piena contraddizione con l’atteggiamento prudente che raccomanda di «seguire il costume degli Anziani, che risale al Diluvio universale, di scegliere come dimora i luoghi elevati», come sostiene l’anonimo redattore della notizia dedicata al paese di Revello, in Valle Po, pubblicata nel 1687 all’interno del Theatrum Sabaudiae.
Oggi è spontaneo domandarsi perché gli antichi abitanti degli borghi addossati alla roccia a picco avessero scelto dei luoghi così poco accoglienti per vivere, ma la scelta diventa subito molto più comprensibile se si tiene conto di un concetto chiave dell’antropologia alpina, l’importanza del mantenimento e della gestione delle reti di comunicazione, che un tempo passavano in quota mentre oggi seguono per lo più il corso dei torrenti nel fondovalle.
Oggi come allora c’erano itinerari consolidati e controllati dall’autorità pubblica, altri in condizioni discrete e alcuni, infine, abbandonati e piuttosto sconnessi. Trascurare la circolazione delle persone, degli animali e delle merci al di fuori degli itinerari principali sarebbe ignorare una fetta importante dell’attività alpina. Senza dover per forza parlare di contrabbando o di traffici illeciti, anche se entrambe le attività sono state praticate fino in tempi molto vicini a noi, i legami famigliari e di lavoro hanno sempre obbligato gli alpigiani a degli spostamenti regolari fra vallate e gruppi montuosi. Spesso e volentieri, questi itinerari evitavano le traversate sottoposte al controllo diretto delle amministrazioni e delle autorità. Gli antichi percorsi utilizzati per gli spostamenti “informali” non erano né particolarmente attrezzati né particolarmente sicuri e la moltiplicazione spontanea dei luoghi di ricovero e di ospitalità, per fare tappa o per trovar riparo, era una condizione essenziale perché potessero essere percorribili durante tutto l’anno. È proprio per soddisfare questa funzione di “posti-tappa” che sono sorti insediamenti permanenti in luoghi decisamente poco favorevoli. La borgata di Bousuéyas nell’alta valle della Tinée rientra fra gli insediamenti permanenti più alti d’Europa. Le Prà, poco distante, sorge ai piedi di uno dei coni di deiezione più spettacolari della regione. Nonostante tutto, l’una e l’altra dispongono di un alberghetto dove i viandanti di fine Ottocento si fermavano per una breve sosta o per un soggiorno più lungo: il luogo è scomodo, ma strategico, vicino com’è al Col de Restefond, in direzione dell’Ubaye.
Una considerazione analoga si può fare per Esteng, che si trova ai piedi del Col de la Cayolle, fra le valli del Var e dell’Ubaye, o per Pra Pelet, collocato sotto le Aiguilles de Pelens, passaggio obbligato per raggiungere il Col des Champs e la valle del Verdon. Sono tutti paesi in quota che lasciano sconcertati i viaggiatori contemporanei (“perché mai avranno costruito delle case proprio qui in questo luogo inospitale in mezzo al nulla?”), ma che in realtà sono tessere che si inseriscono in maniera perfettamente logica nel mosaico del paesaggio alpino tradizionale.
Un’idea della rustica accoglienza riservata ai viaggiatori in questi primi alberghi in quota, la fornisce questa descrizione relativa a Bousiéyas: «Non c’è che una camera e il letto è passabile, se si tiene conto del luogo: una casa rustica in legno a 1800 metri di quota. Ci tengo a dire che presso questo albergo abbiamo potuto rifornirci ottimamente a prezzi molto ragionevoli. Abbiamo acquistato carne, verdura, latte e latticini, vino, liquori, eccetera. Di solito i turisti non hanno tutte queste pretese» (Victor de Cessole, 1894).
L’estrema militarizzazione che segue le forti tensioni diplomatiche franco-italiane fra il 1870 e il 1910 porta anche nelle vallate cospicui contingenti di truppe alpine. Gli accantonamenti e le manovre portano con sé un aumento delle presenze sul territorio e della disponibilità di rifornimenti, di cui beneficiano gli escursionisti, sempre più numerosi. Ma non si tratta che di un aumento in quantità e qualità di pratiche di accoglienza già esistenti da tempo e ben inserite nello stile di vita alpino, fatte di prodotti tradizionali (pane, carni sotto sale, zuppe e piquette a chilometri zero o quasi) e di un’ospitalità approssimativa nelle stalle o nelle scuderie, dopo una semplice veglia in compagnia della famiglia accanto al focolare.
La città in montagna
Se ammettiamo che denominazioni come città, borgo e centro urbano possano non dipendere unicamente dal numero dei rispettivi abitanti, si può capire come possano esistere, nel cuore delle Alpi, degli insediamenti il cui statuto è diverso da quello dei paesi di contadini. Il concetto di “centro urbano” deriva dall’antichità, dove indicava i capoluoghi dei territori più o meno estesi sui quali le città esercitavano il loro controllo. Vicariato, baliato, prefettura, arrondissement, distretto e altri ancora sono nomi che indicano la zona di influenza di ogni centro urbano intorno al quale si organizza la suddivisione del territorio.
Le città acquisiscono un peso differente nel momento in cui diventano luoghi di scambio in occasione di fiere e mercati, luoghi di amministrazione del potere dove risiedono i rappresentanti del fisco, dell’esercito, dell’amministrazione dello Stato, luoghi d’affari dove si incontrano mercanti e imprenditori. Per poter esercitare al meglio le sue funzioni, la città si sviluppa in un sito centrale, collocato in uno snodo importante della rete viaria. Esempi di città poste al cuore del sistema di comunicazioni locale sono Barcelonnette e Borgo San Dalmazzo.
Quando, nel 1231, i notabili di Faucon ottengono dal conte di Provenza Raimondo Berengario V l’autorizzazione per edificare una nuova città che controlli i traffici con il marchesato di Saluzzo attraverso la strada del Colle della Maddalena, il signore mette sul tavolo due esigenze. In primo luogo, la nuova città dovrà chiamarsi “Barcelone”, in onore della capitale catalana, culla della dinastia del conte (è solo con l’annessione alla Francia in seguito al Trattato di Utrecht, nel 1713, che la città cambierà il suo nome in “Barcelonnette”). Inoltre viene stabilito di costruire “Barcelone” secondo una pianta a scacchiera sviluppata intorno a una piazza centrale. Questo modello urbano, già noto nell’antichità e applicato sistematicamente dai Romani (il cardo e il decumano), risulta nel Medioevo la soluzione migliore per la maggior parte delle nuove città di cui si incoraggia la fondazione attraverso la concessione di privilegi ed esenzioni fiscali (le varie villae novae, “Villeneuve” o “Villanova” di cui la Francia e l’Italia sono piene).
In molti casi, tuttavia, il quartiere medievale che costituisce il centro storico della città attuale, non è stato che lo sviluppo di un nucleo preesistente. Il piano della città nuova di sviluppa allora in questi casi secondo uno schema spontaneo, che non segue un tracciato geometrico, ma si organizza per sfruttare al meglio il rilievo, disponendosi lungo le linee di livello. Dei canali di drenaggio e di scolo delle acque sono ricavati al centro delle ripide vie principali, tagliate da viuzze orizzontali, come si più vedere a Saint Martin Vésubie. In questi casi la pianta della città costituisce un insieme originale, evidentemente impossibile da riprodurre altrove.
Sovente le città nascono e si sviluppano in prossimità di un punto di passaggio obbligato: che si tratti dell’attraversamento di un corso d’acqua (via ponte o via guado) o del crocevia fra più strade. Non è un caso che Sospel sia sorta e cresciuta intorno al famoso Ponte Vecchio o che Breil sur Roya e, più precisamente, il suo quartiere di La Giandola, si trovi all’incrocio delle strade che portano in Liguria, in Piemonte e a Nizza: qui si installano diversi artigiani e nel Settecento apre i battenti un albergo che l’esigente tourist Tobias Smollettnon esita a definire «decisamente mediocre» (1765). Sono numerose le città di montagna la cui importanza e la cui popolazione sono state paragonabili a quelle delle città di pianura, anche se oggi le prime si sono spopolate mentre le seconde hanno raggiunto dimensioni considerevoli. Per esempio, tra il 1610 e il 1630 la popolazione del paese di Entracque, in Valle Gesso, raggiunge le 4500-5000 unità, avvicinandosi a centri di pianura come Racconigi e Saluzzo. Oggi possiamo ancora leggere a ritroso la storia degli insediamenti urbani alpini attraverso la loro forma, che trasferisce sul terreno l’antica organizzazione e l’attuale recessione, dovuta alla progressiva perdita di attività economiche.
Si è soliti imputare alla creazione delle vie di comunicazione moderne (strade e ferrovie) l’esodo dalla montagna verso i grandi centri della Riviera e della pianura. Lo schema, che contiene una parte di verità, necessita tuttavia di qualche precisazione: la manodopera alpina, secondo consuetudini antiche di secoli, pratica la migrazione stagionale verso i centri della costa, dove l’economia d’inverno non si ferma, a differenza di quanto accade nelle valli. Il rapido sviluppo dell’economia turistica della Costa Azzurra, a partire dall’ultimo quarto dell’Ottocento, attira stabilmente in città molti montanari delle valli alpine francesi e, in parte, anche cuneesi, che trovano impiego nel vasto universo dei servizi. Nello stesso periodo l’economia industriale e la politica internazionale sembrano condannare i centri urbani di montagna al declino. Un esempio significativo: l’arrondissement di Puget-Théniers passa da 25.000 abitanti nel 1860 a 15.000 nel 1960: è nell’indifferenza generale che viene soppresso appena sei anni più tardi, quando i suoi comuni passano all’arrondissement di Nizza. Uno spopolamento del tutto simile colpisce i comuni delle alte e medie valli piemontesi. I montanari si spostano, gli insediamenti in quota mantengono l’impronta della storia che fu: si può provare a leggere il declino dell’economia alpina come frutto della capacità degli alpigiani di cogliere e di sfruttare le evoluzioni economiche e culturali in corso, anche al prezzo di abbandonare uno stile di vita antico di generazioni, piuttosto che secondo la solita chiave di lettura della fragilità dell’economia alpina di fronte alle innovazioni tecniche e alle trasformazioni della società.
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