Una storia incisa nella roccia

La Valle delle Meraviglie

La Valle delle Meraviglie riveste un interesse culturale unico, che assume un carattere eccezionale proprio per la sua posizione geografica, nel cuore delle Alpi sudoccidentali. Il sito può essere considerato come lo spazio condiviso di una cultura originale comune ai due versanti delle montagne, che ha esercitato la sua influenza sugli insediamenti permanenti delle valli circostanti. I nostri remoti antenati hanno iniziato a frequentare questi paraggi ben prima che a qualcuno di loro venisse in mente di scolpirne le rocce. Ma sono state le incisioni a svelarci importanti aspetti del mondo materiale e simbolico degli antichi abitanti di queste montagne. La straordinaria continuità dei graffiti, che coprono tutte le epoche storiche, ci permette di leggere oggi sulle rocce una storia inedita dello spazio transfrontaliero.

Le Alpi 16.000 anni fa: una distesa di ghiaccio

All’incirca 16.000 anni fa le Alpi sudoccidentali diventano inaccessibili: ghiacciai spessi diverse centinaia di metri le ricoprono e, con il loro peso e il loro movimento, modellano lentamente il territorio. Quattromila anni più tardi, un riscaldamento climatico provoca la fusione delle masse glaciali: uno strato dopo l’altro tornano così alla luce del sole le alte vallate del massiccio Argentera-Mercantour, mentre morene e verrou glaciali (rocce più compatte, scampate all’erosione glaciale) vanno a creare le conche che ancora oggi ospitano i laghi d’alta quota. A partire da diecimila anni fa (intorno all’8.000 a.C.) incomincia quindi la progressiva riconquista della montagna da parte delle piante e degli animali: in cerca di pascoli e cacciagione, arrivano anche i primi esseri umani.

Gli alpeggi del Neolitico

Sgombero dai ghiacci, il territorio alpino conserva l’impronta del loro lento lavorio: valli “a U”, grandi rocce sagomate e levigate (rocce montonate), verrous glaciali e grandi accumuli di detriti, laghi disposti su più livelli (come i Laghi della Sella inferiore e superiore) e massi erratici (macigni di grandi dimensioni trasportati “sul dorso” dei ghiacciai per essere poi abbandonati al momento dello scioglimento anche a grande distanza dalla sede del distacco).

Le condizioni atmosferiche favorevoli e la vegetazione adatta al pascolo di queste valli le rendono un luogo adatto per l’alpeggio estivo delle prime popolazioni di agricoltori e pastori, insediati sul versante mediterraneo delle Alpi Marittime già intorno al 5.800 a.C. Sappiamo di questa presenza grazie ai frammenti di ceramica “cardiale” ritrovati a 2.100 metri di quota presso il giàs del Giari, un ricovero sotto roccia a monte del Lago Lungo superiore, nella Valle delle Meraviglie. La ceramica “cardiale” deve il suo nome al fatto che il vasellame veniva decorato con l’impressione sull’argilla ancora fresca del margine del guscio di una conchiglia di Cardium tuberculatum. I primi frequentatori neolitici, probabilmente attratti dalla qualità degli alpeggi, salivano in quota d’estate con i loro animali e si stabilivano sulle praterie intorno ai laghi, nella Valle delle Meraviglie e nel Vallone di Fontanalba. Risale forse a quest’epoca una scena dipinta sul soffitto di un piccolo ricovero, che ritrae un cacciatore con l’arco teso nella direzione di uno stambecco.

I primi incisori

Le raffigurazioni delle armi indicano tuttavia che la maggior parte delle incisioni rupestri della zona del Monte Bego sono più tarde: risalgono infatti a duemila anni più tardi, all’Età del Rame (3.300 a.C.). Il luogo scelto per le incisioni si presta decisamente all’insorgere del pensiero mitico mediterraneo: non manca nulla - vette, tempeste, pioggia, lampi, sorgenti, torrenti e laghi dalle acque perenni. E, per uno straordinario concorso di circostanze, centinaia di superfici rocciose lisciate dai ghiacciai e dagli agenti atmosferici e colorate dai minerali si offrono come un’immensa lavagna alla mano degli incisori, che imprimono sulla pietra, in un linguaggio simbolico, la loro concezione del mondo visibile e invisibile. I pastori dell’Età del Bronzo portano avanti l’opera iniziata dagli antenati calcolitici: conservano, attualizzandoli, i simboli e i pittogrammi dei loro predecessori, modernizzano la forma delle armi e rendono ancora più schematiche le rappresentazioni.

Un linguaggio simbolico di 7.000 anni fa

Più di quattromila rocce scolpite, distribuite su duemila ettari di territorio compreso fra i 2.000 e i 2.800 metri di quota portano incisi ancora oggi circa quarantamila simboli grafici, largamente dominati da una figura dotata di corna detta, appunto, “corni forme”. Si tratta della rappresentazione schematica di un bovino, che forse simboleggia il bue, prezioso compagno dell’agricoltore, oppure il dio toro, signore della tempesta, fecondatore della terra, artefice di ricchezza e abbondanza. Linee a zig zag, linee ondulate e nuvole di punti evocano le varie forme assunte dall’acqua: l’acqua che sgorga, l’acqua che scorre, l’acqua che scende sotto forma di pioggia. Inserite in composizioni che comprendono aree rettangolari, queste raffigurazioni sembrano descrivere dei sistemi di irrigazione alpina. Armi, antropomorfi e figure geometriche costituiscono dunque, insieme ai corniformi e ai dispositivi di traino, un alfabeto di una trentina di simboli che si combinano e si associano per formare delle composizioni grafiche molto elaborate.

Il sito del Monte Bego, che possiamo circoscrivere con una certa precisione, è stato scelto per più di un millennio, tra il 3.300 e il 1.800 a.C., da popolazioni di agricoltori e di pastori giunti dalla Provenza, dalla Liguria, dal Piemonte o dalla Valle del Rodano per incidere sulle sue rocce la loro concezione del mondo e della vita.

Le incisioni storiche

Le rocce del Monte Bego conoscono un primo periodo senza incisioni tra la fine della prima Età del Bronzo e il periodo romano: una incisione del II secolo d.C. attesta il passaggio di un uomo - letterato ma rozzo - che riporta sulla roccia una frase scurrile. Quindi gli incisori scompaiono nuovamente per riprendere la loro opera di memoria, senza più interruzioni, a partire dal Medioevo. In questa epoca e nei secoli seguenti, vengono incise sulle rocce iscrizioni e figure schematiche, a volte appena visibili, che rappresentano pastori, militari, viandanti, forse anche pellegrini, perfino immagini di barche, di straordinaria precisione, sicuramente realizzate da marinai o da professionisti dell’ex voto.

Le date, lo stile di scrittura, gli indumenti sono altrettanti indizi che permettono di risalire con precisione al periodo in cui è stata realizzata l’incisione.

Le “meraviglie” del Monte Bego

Fino al XVI secolo, gli unici visitatori della Valle delle Meraviglie sono i misteriosi incisori. A partire dal XVII, i graffiti iniziano a attirare l’attenzione dei frequentatori del sito: vengono considerati come cose sorprendenti, opere strane, curiosità - “meraviglie”, insomma. Sono citati per la prima volta nel 1650 dallo storico nizzardo Pietro Gioffredo, che li descrive sulla base della relazione di Lorenzo Onorato, parroco del paese di Belvédère. Nel XIX secolo è la volta di numerosi naturalisti, storici e geologi che osservano, rilevano e cominciano a interpretare quelle incisioni straordinarie. Tra questi ci sono anche Mathew Mooggridge, che nel 1868 mette in relazione i segni scolpiti con le prime scritture pittografiche, e Emile Rivière, che nel 1877 afferma - primo tra tutti - che le incisioni risalgono all’Età del Bronzo. La prima campagna archeologica sistematica viene avviata, nel 1920, da Piero Barocelli. Animato da una visione lungimirante, Barocelli costruisce un rifugio a 2.100 metri di quota nei pressi del Lago Lungo superiore per ospitare le generazioni di archeologi che saranno necessarie per interpretare tutta quell’immensità scolpita nella roccia. Nel 1930 conferisce l’incarico di iniziare i lavori a Carlo Conti, scultore di Borgosesia. Conti passa al setaccio tutte le valli intorno al Monte Bego e scopre centinaia di rocce incise: ne fa l’inventario, le riproduce, i qualche caso ne realizza dei calchi in gesso. È il primo a ideare un sistema di riferimento per situare le incisioni nello spazio: divide la regione in settori, i settori in zone, le zone in gruppi e attribuisce un numero a ogni roccia incisa secondo un preciso percorso geografico. Il suo Corpus della zona I è stato pubblicato nel 1972. Nel 1967, Henry de Lumley riprende lo studio delle incisioni della regione del Monte Bego con l’obiettivo di realizzare un corpus completo e dettagliato. Il ricercatore, basandosi sulla cartografia di Carlo Conti, riprende la sua suddivisione in zone e gruppi, segnala le nuove rocce con una lettera greca e riesce a ottenere da Graziella Freschi-Conti, figlia di Conti, il censimento delle rocce scomparse durante la Seconda guerra mondiale. Nel 2003 vengono pubblicati i primi due tomi, dei ventiquattro complessivi, della monografia del Monte Bego (tomo 5 per la zona III e tomo 14 per la zona XII). Ogni volume presenta una singola zona sotto tutti gli aspetti: geologia, geomorfologia, vegetazione, rilevazione esauriente di tutte le rocce incise (protostoriche e storiche), studio delle incisioni, mappe dei ripari sotto roccia e delle costruzioni militari e tentativi di interpretazione del sito.

Fragile come di roccia: un sito in pericolo

Un sito archeologico all’aria aperta, soprattutto in alta montagna, subisce le ingiurie del tempo che passa e di quello atmosferico. Differenze di temperatura, azione dilavante dell’acqua, usura delle superfici, caduta di pietre, piogge acide, vegetazione: ogni fattore ha il suo ruolo nel danneggiare le incisioni. Eppure le rocce del Monte Bego conservano i loro graffiti da più di 5.000 anni. Nel XIX secolo l’area viene scombussolata dai lavori di costruzione delle dighe sui laghi della zona. Lo studioso Clarence Bicknell ne è turbato e auspica la creazione di un Parco. Giunge così la vigilia della Seconda guerra mondiale. L’esercito italiano occupa il sito, di importanza strategica, e, servendosi della pietra locale tagliata a blocchi, costruisce caserme, casematte, terrazzamenti, trincee.

Finita la guerra, nel 1969 la zona del Monte Bego è classificata come “sito di interesse”. Nel 1979 viene istituito il Parco nazionale del Mercantour e, nel 1989, il sito diventa infine “Monumento storico”.

Una vasta area archeologica a cielo aperto di incisioni rupestri è destinata a subire anche le ingiurie dei visitatori. Le degradazioni, involontarie o dolose, interessano a poco a poco tutte le rocce scolpite del Monte Bego. Il corpus delle incisioni è oggi in grado di conservarne la memoria, ma non può sostituire il sito stesso. Questa pagina dell’avventura umana, assolutamente unica, che ci parla dell’apparizione delle prime montagne sacre dove degli uomini hanno scolpito nella pietra simboli enigmatici ed elaborate composizioni grafiche per comunicare con gli dèi, sarà forse un giorno, tra qualche millennio, cancellato da un nuovo ghiacciaio. Ma nel frattempo il sito c’è, protetto dagli uomini da parte di altri uomini: esso fa parte della nostra memoria collettiva e continuerà a svelare i suoi segreti, progressivamente, ancora per molto tempo.

Sito realizzato nell'ambito del PIT "Spazio transfrontaliero Marittime Mercantour" Programma ALCOTRA 2007-2013 e rivisto e aggiornato con il progetto: