L’esplorazione alpinistica delle Alpi del Sud

Fra scienza e avventura

« Che dire in effetti di questa vista meravigliosa? Quasi unica per la sua ampiezza, lo era senz’altro per il sublime contrasto fra il mare, la pianura e le montagne! Erano il deserto e la vita a rincorrersi sotto il mio sguardo incantato »: così il conte de Cessole descrive il panorama che lo accoglie dalla vetta del Gelas. Come lui, figura simbolo dell’esplorazione del massiccio dell’Argentera-Mercantour, altri alpinisti hanno subito il fascino di queste montagne severe, fra le ultime dell’arco alpino ad essere scoperte e salite tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento.

La scoperta del «massiccio meno conosciuto di tutto l’arco alpino»

Nel 1864, tutte la grandi vette delle Alpi erano già state conquistate da tempo. Anche il vicino Monviso era stato salito, nel 1861: eppure a fine Ottocento, le Alpi Marittime erano ancora una terra incognita per gli alpinisti: «La regione montana, che fa alle Terme corona, è al mondo sportistico e alpinistico pressoché sconosciuta. Le correnti dell’emigrazione signorile periodica estiva, attratta dalle fresche valli, dalle alte cime, dai laghi alpestri, sono dirette quasi esclusivamente verso quelle località già note e rinote all’universo, che hanno avuto la fortuna di essere state scoperte e messe all’onor del mondo prime in tempo. Le Alpi Marittime, finora dimenticate, si può dire, incominciano a venire alpinisticamente visitate. Quanti conoscono gli intimi recessi della Svizzera, della Val d’Aosta, della Val Sesia, ed ignorano invece le bellezze delle Alpi Marittime e specialmente della valle del Gesso! E sì che non mancano né alte punte, né passi o facili o pericolosi, né incanti di laghi, né bellezze di cascate, né orridezza di rupi, né ampiezza di orizzonti». Secondo il dottor Marchisio, medico consulente delle Terme di Valdieri, alle Marittime non mancava nulla per piacere. Eppure le appartate cime dell’estremo sudoccidentale sono state a lungo le Cenerentole dell’arco alpino: non abbastanza alte (la cima più elevata è la Sud dell’Argentera, coi suoi 3297 m slm) da essere tra le più ambite, ma sufficientemente severe per incutere timore ai meno ardimentosi, hanno dovuto pazientare prima di trovare i propri estimatori. Senza contare il fatto che, soprattutto, sul versante francese, le grandi cime che avrebbero potuto eventualmente attirare lo sguardo ambizioso di qualche pioniere rimanevano ben nascoste al fondo delle valli. Da Saint-Martin-Vésubie è impossibile scorgere il Gelas e la Cougourde, mentre per scorgere la Maledia occorrevano sette ore di cammino da Belvédère. Così la scoperta alpinistica delle Marittime si colloca soltanto tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, sancita dalla comparsa delle prime due guide per escursionisti e alpinisti della zona: la Martelli-Vaccarone delle Alpi occidentali (1880) e la guida di Giovanni Bobba dedicata espressamente alle Marittime (1908).

Fino a quel momento, non c’è ancora chi decide di percorrere le Alpi del Sud se non per necessità, nessuno ne raggiunge le cime e talvolta nemmeno ci si preoccupa di dar loro un nome: «l’ignoranza negli abitanti della montagna circa le loro montagne era completa e tutt’al più il loro interesse non oltrepassava la regione dei pascoli, e infine il fuoco sacro dell’alpinismo era nel nostro paese ancora latente e chi voleva allora indicazioni sulle Alpi doveva attingerle all’Alpine Journal di Londra, o a qualche rara monografia locale riferenti piuttosto alla sagra, o al miracoloso santuario del luogo, anziché alle maestose cime circostanti»: così si lamenta il geografo colonnello Pio Paganini, inviato dallo Stato Maggiore in Valle Gesso per redigere il rilievo fotogrammetrico della Serra dell’Argentera.

Al solito, infatti, gli alpinisti sono stati preceduti dai cartografi impegnati negli anni Trenta dell’Ottocento nella stesura della carta 1:50.000 del Regno di Sardegna, sotto la scorta di esperti valligiani appositamente assoldati. Così il capitano La Rocca raggiunge la cima Est del Matto nel 1830 e il capitano Cossato, nel periodo che va dal 1832 al 1836 sale sul Clapier, sul Ténibres e sul Tournairet. Questa prima carta si rivelerà talmente imprecisa (a titolo di esempio: assegnava la quota massima non alla cima Sud dell’Argentera, 3297 m, bensì alla appariscente ma nettamente più bassa cima del Mercantour, 2775 m) da richiedere una successiva campagna di rilevamento, che nella seconda metà dell’Ottocento porta capitani e tenenti del neonato Istituto Geografico Militare italiano in vetta a molte delle culminazioni principali delle Marittime.

Benestanti, avventurosi, appassionati: identikit degli esploratori delle Marittime

Nel luglio 1864 il riverbero di un ghiacciaio di piccole dimensioni visibile dal paese di Entracque attira lo sguardo del conte Paolo di Saint-Robert, uno dei fondatori, insieme a Quintino Sella e a Giovanni Baracco, del Club Alpino Italiano: alpinista e scienziato, il conte decide di salire il Gelas sia per conquistarne la vetta, ma anche per verificarne la quota, al tempo considerata la più elevata delle Alpi Marittime. Eredi degli scienziati illuministi e già imbevuti di spirito romantico e spirito di conquista, i primi scalatori portano negli zaini barometri e strumenti di misura, prendono meticolosamente nota dei particolari botanici e geologici che li circondano, segnano diligentemente temperature, distanze e tempi di percorrenza. Solo più tardi, come ha scritto il giornalista di montagna Carlo Graffigna “in mezzo a un’ecatombe di altimetri, di bollitori e di barometri, qualcuno ci fu che ebbe occhi e cuore anche per il fascino delle grandi altezze, per il silenzio degli alti nevai, per la sfida delle cime che troneggiavano più in su delle nubi. Per questi richiami, così suggestivi, si poteva anche rinunciare ai fragili strumenti dello studioso: uno dopo l’altro cadono tutti i “falsi scopi”. Si comincia ad andare per monti soltanto perché è bello, è inebriante, è nuovo; nuovo non come una moda, ma come una scoperta e una conquista. Nasce l’alpinismo moderno, che prende la strada dell’avventura individuale, scevra di ogni interesse conoscitivo. Lasciandosi alle spalle un termometro e un alpenstock, il conte e i suoi compagni di avventura firmano la prima ascensione del Gelas.

Per quanto possa sembrare bizzarro di primo acchito, alcuni dei principali esploratori delle Marittime venivano da lontano: addirittura da oltremanica. Ma non deve stupire: i benestanti sudditi di sua maestà britannica hanno svolto nelle Alpi quel ruolo di conquistatori ed esploratori che l’Inghilterra imperialista stava portando avanti in quegli stessi anni su scala mondiale. Così, paradossalmente, mentre a Cuneo e a Nizza pochi sapevano o si interessavamo del massiccio dell’Argentera Mercantour, l’Alpine Journal forniva già ai membri dell’Alpine Club le prime informazioni relative alle Alpi Marittime.

Nel 1878, l’esperto alpinista inglese Douglas W. Freshfield parte con una guida di Chamonix per scalare l’allora inviolata Cima Sud dell’Argentera, ma sbaglia strada (complice la famigerata vecchia carta degli Stati Sardi) finendo sulla vicina Cima di Nasta per quella che è diventata la via normale. Si consola constatando che si era trattato comunque di una prima ascensione e godendo dalla vetta di un panorama davvero eccezionale: “ …della più straordinaria bellezza. Niente nasconde alla vista le regioni costiere della Francia. Dalla doppia cima del Berceau all’entroterra di Mentone; poi, splendide nel sole del pomeriggio, rivestite dei colori più delicati, le familiari colline della Provenza, Cheiron, Estérel, il massiccio dei Maures, il Var che attraversa la pianura, un filo pallido di fumo che indica il treno diretto a Nizza. In direzione del mare, le montagne della Corsica si stagliano contro il cielo, non bianche per le nevi invernali, ma blu, porpora e maestose come sempre, avvolte da una nuvola luminosa sospesa al di sopra delle loro creste”.

L’anno dopo è la volta del reverendo britannico William August Brevoort Coolidge, che, con maggior fortuna, raggiunge le sommità dell’Argentera e del Matto. Coolidge, cui non difettavano né tempo né mezzi, incoraggiato dalla zia, si appassiona presto alla montagna: alpinista di gran classe, intrattabile ma prudente, realizza in trentacinque anni quasi duemila ascensioni. La conquista del Monte Stella, del Gelas di Lourousa della Cima Nord e della Cima Sud dell’Argentera avviene in un solo giorno, passando per il canale di Lourousa la cui prima ascensione avviene grazie agli innumerevoli gradini intagliati nel ghiaccio dalle esperte guide svizzere Christian e Ulrich Almer (quando, nel 1898, il conte de Cessole ripete la salita del canale divertendosi a tenere il conto dei gradini arriverà fino a 1600).

Un terzo nome da ricordare è quello dell’austriaco Ludwing Purtscheller, che in soli nove giorni scala quindici delle principali vette delle Marittime, quasi sempre per vie nuove, quasi sempre senza guida ma accompagnato da un portatore locale. E sempre a guide e  portatori locali si rivolge l’esploratore per eccellenza di questo settore delle Alpi: il cavaliere (poi conte) nizzardo Victor Spitalieri de Cessole, figura transfrontaliera (il cognome tradisce le sue origini cisalpine) di alpinista, fotografo, documentatore - «signore» per unanime acclamazione - delle Marittime.

Victor de Cessole: il signore delle Marittime

Motivi di salute spingono il cavaliere Victor Spitalieri de Cessole, allora trentenne, a frequentare la montagna: il medico gli aveva consigliato di praticare un’attività all’aria aperta. Detto, fatto: è sufficiente una sola escursione a Madonna di Finestre perché il rampollo della nobiltà nizzarda contragga il virus inguaribile della passione per l’esplorazione e lo studio delle montagne. A 37 anni de Cessole inizia così una lunga serie di conquiste delle cime e delle pareti, con una prestigiosa attività che si protrarrà per ben 27 anni dando, con lo studio e la metodica esplorazione di tutti i recessi inviolati delle Marittime, un immenso contributo di conoscenza e documentazione di questo settore alpino. La sua attività assume proporzioni straordinarie: conquista circa novanta montagne in prime ascensioni assolute e traccia inoltre un notevole numero di vie nuove (circa 120). Appassionato bibliofilo, valente scrittore e abile fotografo, de Cessole scala, racconta, pubblica, immortala le montagne che ama.

Membro, consigliere, segretario e infine presidente della sezione di Nizza (Alpes Maritimes) del Club Alpin Français, pratica e promuove l’alpinismo a 360° gradi: sale le grandi cime delle Alpi e fa costruire rifugi in quota, coinvolge i giovani, con le “caravanes scolaires”, nell’esperienza della scoperta rispettosa dell’ambiente alpino e del suo studio appassionato, che precede il momento più sportivo e autocelebrativo del raggiungimento della cima.

Ma de Cessole è anche uomo d’azione e di conquista: il trio formato dal conte, da Louis Maubert, altro noto alpinista dell’epoca, e dalla guida Jean Plent, fa man bassa di un numero strabiliante di prime ascensioni, portando a termine l’esplorazione sistematica del massiccio Argentera-Mercantour. Nelle sue ascese, de Cessole si avvale della forza e dell’abilità di due guide fidate locali: una francese, il già citato Jean Plent di Saint-Martin-Vésubie, e una italiana, Andrea Ghigo, detto il Lup (“il lupo”) di Sant’Anna di Valdieri. È insieme a loro che compie quello che è considerato il suo capolavoro: la conquista del mitico Corno Stella. Una montagna che ha più di una valida ragione per essere famosa: per la sua particolare forma (sembra il boa che digerisce l’elefante disegnato da Antoine de Saint Exupéry), per le sue alte pareti verticali, per la splendida vena di quarzo ne traccia la diagonale, per essere un’immensa, sottile moneta sulle cui facce opposte gli alpinisti possono cimentarsi scegliendo il sole di sudovest o l’ombra severa di nordest. Una montagna che all’inizio del secolo scorso, quando tutte le cime principali delle Alpi erano state salite e si era già toccato il limite superiore del IV grado di difficoltà ancora prima della comparsa dei chiodi di assicurazione, resisteva ancora caparbiamente all’assedio di corde e scarponi. Una montagna che per questo si era guadagnata dall’alpinista tedesco Fritz Mader l’appellativo di “Roc inaccessible”. Lo stesso Victor de Cessole aveva dei dubbi sulla possibilità di raggiungere la vetta: “il Corno Stella presenta allo sguardo una tremenda parete verticale, assolutamente simile a quella che può ammirare sull’altro versante l’ascensionista del Canalone di Lourousa: questa veduta non lascia alcun dubbio circa l’impraticabilità di quella straordinaria roccia”. Tuttavia, il conte era destinato a ricredersi: “Ore 10 e 5 del 22 agosto 1903. I tre uomini della cordata sono riuniti, quasi al centro della parete, sotto il muro di rocce scure che ha bloccato, il giorno precedente, l’avanzata di Plent e Ghigo. Jean Plent parte. Non sa che cosa lo aspetta. Se mai cadesse i suoi compagni non gli sarebbero di alcun aiuto. Un passo, un altro ancora. Sparisce oltre uno spigolo. Nessuna assicurazione, in scarponi chiodati su una placca da superare in aderenza. Allucinante. Ci sono momenti magici in cui una certa cosa deve succedere. E quel 22 di agosto è giunta l’ora del Corno Stella. Jean non ha pensato al conte, ai soldi, ai genitori, alla sua casa al di là delle montagne. Jean è andato, ha fatto il vuoto dentro di sé, fino a quando, dopo un viaggio di 25 metri durato un’eternità, può infine urlare al mondo la sua gioia: «Povero Corno, ‘sta volta ti abbiamo in pugno!». Così, nel volume dedicato a de Cessole, Il signore delle Marittime, Nanni Villani racconta il passaggio del mauvais pas che segna la conquista della vetta del Corno e, con essa, la fine dell’esplorazione vera e propria delle Marittime. Di lì a poco, lo scoppio della Prima guerra mondiale avrebbe interrotto bruscamente la stagione dell’alpinismo scientifico, cooperativo e transfrontaliero à la de Cessole. Ai tempi del signore delle Marittime i «conquistatori dell’inutile» non sventolavano mai la bandiera del loro paese, e neanche il gagliardetto del circolo al quale appartenevano, sulle cime inviolate che erano riusciti a conquistare. Si accontentavano di innalzare una piccola piramide di pietre sotto la quale lasciavano il loro bigliettino da visita e, a volte, una bottiglia di vino destinata a coloro che li avrebbero seguiti. L’alpinismo era ancora un’avventura priva di qualsiasi nazionalismo o affermazione identitaria. Di lì a pochi anni le Alpi sarebbero si sarebbero trasformate in frontiere e palestre d’ardimento dove dimostrare a suon di conquiste e nuove vie, il valore di una o dell’altra nazione attraverso le gesta ardimentose degli alpinisti.

Prima del turismo: quando l’avventura iniziava lontano dalle pareti

Il massiccio dell’Argentera, con le vette più alte delle Alpi del Sud, era la meta più ambita dai primi alpinisti. Tuttavia, prima ancora di cimentarsi nella scalata vera e propria, i pionieri dovevano superare i mille ostacoli dell’avvicinamento. Si trattava infatti di montagne che ancora all’inizio del Novecento erano difficilissime da raggiungere: da Nizza occorreva una giornata di carrozza per raggiungere Saint-Martin-Vésubie e molte ore di cammino per salire ai passi sulla linea di displuvio e raggiungere la Valle Gesso. Senza contare che, in seguito al trattato di Parigi del 1860, i territori appena al di là dello spartiacque, oggi appartenenti alla Francia, facevano parte all’epoca del Regno d’Italia (erano i famosi “territori di caccia” del re): così gli alpinisti francesi prima di fare lo zaino dovevano passare a far vidimare il passaporto al Consolato italiano di Nizza. Gli alpinisti liguri non erano tuttavia molto più fortunati dei colleghi francesi: per arrivare a Sant’Anna di Valdieri da Genova devono mettere in conto, come testimonia l’alpinista rivierasco Emilio Questa, «la bellezza di undici ore di viaggio, sballottati in treno, in tram, e finalmente “dulcis in fundo” per due orette in vettura». I cuneesi, essendo in zona, ai mezzi pubblici normalmente preferiscono sobbarcarsi due ore e mezzo di vigorose pedalate.

Come se l’avvicinamento non fosse già abbastanza complicato, anche l’ospitalità sul posto lasciava molto a desiderare: le poche osterie, locande e alberghi che si trovavano nelle valli non sempre erano in grado di soddisfare le aspettative degli ospiti, tant’è che nel 1902 l’alpinista genovese Emilio Questa «onde evitare la poco confortevole e pulita ospitalità che può offrire l’unica osteria del villaggio» di Sant’Anna di Valdieri, preferisce lasciare la borgata sul far della notte e bivaccare, sotto la pioggia, ai piedi della Cima della Vagliotta.

Oltre agli avvicinamenti epici e ai pernottamenti disagevoli, i primi alpinisti dovevano poi fare attenzione a non spaventare i camosci destinati al fucile del re e, soprattutto, a non trasgredire gli ordini militari che in nome della difesa nazionale imponevano di non avvicinarsi a meno di un chilometro alle fortificazioni di frontiera e di rinunciare entro un certo raggio addirittura a portar con sé gli apparecchi fotografici. Potevano tuttavia contare su un numero crescente di guide e portatori locali. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, il mestiere di guida inizia a conoscere un certo successo nelle valli. Sul versante italiano giornata di una guida costa dalle 5 alle 7 lire per una passeggiata, dalle 8 alle 20 lire per un’escursione difficile o una traversata su ghiacciaio. Di fronte a un repentino aumento del numero di turisti bisognosi di accompagnatori fidati, se si fa il confronto con altre spese sostenute dagli alpinisti dell’epoca (la retta giornaliera di un albergo di medio livello si aggirava sulle 5 lire, un pranzo intorno alle 25 lire e mezza, per i soci dei club alpini il pernottamento al rifugio Genova valeva mezza lira, una copia della guida delle Alpi Marittime 2 lire e mezza) si ha l’impressione che per chi sappia crearsi una clientela affezionata, il mestiere di guida potesse essere remunerativo.

Grazie alla creazione del Club Alpino Italiano, nel 1863, alla nascita, nel 1874 della sezione di Cuneo del Club Alpino Italiano e, sei anni più tardi delle sezioni delle Alpes Maritimes del Club Alpin Français e Ligure del CAI, gli alpinisti possono usufruire di sempre maggiori informazioni sulle ascensioni e di migliori punti di appoggio, anche in quota. Il primo ricovero in quota viene costruito sul versante francese nel 1880, grazie ai fondi del Club Alpino Internazionale: si tratta del riparo sotto roccia della Barma, nella Val Gordolasque. Giudicato a rischio per la caduta di pietre e neve, oltre che poco confortevole (era scavato nella roccia viva), il ricovero fu abbandonato  a malincuore: al suo posto, nel 1902, venne inaugurato il Refuge de Nice. Sul versante italiano, il primo rifugio apre i battenti nel 1896 sul territorio del Comune di Entracque, presso il ricovero già esistente del gias Monighet superiore, nel Vallone della Rovina: l’edificio appartiene alla Sezione Ligure del CAI e viene infatti battezzato Rifugio Genova. Un’ottantina di anni più tardi il Genova sarà sommerso dalle acque del bacino artificiale del Chiotas e sostituito dalla struttura attuale, costruita sulle sponde del vicino Lago Brocan. I primi frequentatori dei rifugi saranno soprattutto alpinisti cuneesi, liguri e francesi, venuti a cimentarsi sul terreno di gioco inaugurato dai pionieri venuti da lontano

Sito realizzato nell'ambito del PIT "Spazio transfrontaliero Marittime Mercantour" Programma ALCOTRA 2007-2013 e rivisto e aggiornato con il progetto: