L’alimentazione tradizionale
Piatti semplici e frugali
Tradizioni alimentari pressoché identiche ci parlano di un fondo culturale comune, caratteristico della regione transfrontaliera. La cucina delle valli delle Marittime e del Mercantour impiega infatti gli stessi prodotti, coltivati per la maggior parte sul posto e conditi con pochi ingredienti acquistati da fuori. Il patrimonio culinario locale si è arricchito così grazie alle influenze molteplici provenienti dalle regioni vicine, in contatto con il cuore delle Alpi meridionali. Infine, ogni cuoco aggiunge sempre ai piatti della tradizione un tocco di creatività personale, che moltiplica le ricette, ma permette sempre di riconoscere l’eredità gastronomica comune.
Una gamma ristretta di prodotti
I testi dedicati alla cucina tradizionale delle vallate alpine, affermano spesso che gli abitanti di queste zone, vivendo in una condizione di estrema povertà, hanno potuto utilizzare soltanto i frutti prodotti sulle magre terre scoscese delle montagne. L’alimentazione alpina, risultato di questo stato di indigenza, non può dunque che essere povera: un’economia di autosufficienza non consente infatti alcun lusso culinario. Qualche documento di sintesi presenta questa realtà, come l’ “Inchiesta agraria e sulla condizioni della classe contadina” condotta dal senatore italiano Stefano Jacini fra il 1881 e il 1886, che descrive, fra le altre cose, anche la situazione alimentare della provincia di Cuneo. Jacini afferma che l’alimentazione «lascia talvolta a desiderare per quanto riguarda la qualità degli alimenti, tra i quali la carne scarseggia», anche se «nelle campagne delle montagne povere si mangia leggermente meglio di un tempo». La descrizione dell’alimentazione permette di rendersi conto del livello di vita. «Prima di tutto viene la polenta di mais, poi il pane di frumento, di segale, o misto; le castagne e le patate, quindi le erbe e gli ortaggi, in particolare i fagioli verdi o secchi; i prodotti caseari (latticello, formaggi, tome, ricotta, ...); un po’ di carne di bovino, di pecora, di pollo e di coniglio, ma soprattutto quella del maiale di casa; come bevande, oltre all’acqua e al vino buono, si beve un vino acetato (la piquette) o ricavato da differenti miscele di vini di bassa qualità, oltre a un po’ di caffè comperato». Secondo l’inchiesta questa frugalità dipende sia dalle ristrettezze economiche che da «una avarizia sordida».
Una pratica di semplicità
I pasti dei contadini sono quattro: colazione, pranzo, merenda e cena. Durante l’estate, nel periodo dei grandi lavori nei campi, si aggiunge uno spuntino a metà della mattinata. La polenta viene cotta una volta al giorno, a colazione o a pranzo. Si mangia accompagnata col latte o col latticello, con la salsiccia, con un piatto di fritto o di aioli con acciughe o merluzzo salati. Oltre alla polenta, si cucina una zuppa che si mangia col pane. La carne è praticamente sconosciuta al contadino, che la compra in occasione delle feste di paese, della visita di parenti o anche quando un animale muore di una malattia non trasmissibile. Lo spuntino estivo si consuma tre o quattro ore prima di mezzogiorno: per l’occasione, i contadini mangiano molte verdure, come cipolle, lattuga e peperoncino conditi con l’olio o anche solo con il sale. Questa abitudine si è mantenuta fino al periodo del grande esodo rurale dalle valli alpine piemontesi, il momento in cui il divario economico fra montagna e pianura si è fatto più profondo. Tuttavia, in mancanza di studi recenti, nulla consente di affermare che la montagna, e in particolare le Alpi sudoccidentali, siano state nei secoli passati così povere come si dice. Anzi, si può documentare che, almeno fino alla fine del Settecento, le regioni alpine possedevano le risorse sufficienti per autosostenersi. L’inventario delle ricette testimonia la semplicità e la frugalità del patrimonio culinario.
I piatti tradizionali sono quelli che richiedono una lavorazione più lunga, infatti vengono preparati soltanto in occasione delle festività. Nella vita di tutti i giorni, l’alimentazione rispettava la semplicità e le ristrettezze descritte dall’inchiesta Jacini. Fino alla fine della Seconda guerra mondiale, l’alimentazione è cambiata di poco: l’introduzione della patata e del mais all’inizio dell’Ottocento è stata l’unico evento davvero importante.
Una cucina a base di cereali
Gli elementi di base che entrano a far parte dell’alimentazione tradizionale delle case sono di provenienza locale. Come abbiamo visto, l’impiego limitato della carne caratterizza la cucina quotidiana delle Alpi meridionali. Questo è un parametro comune a tutte le cucine popolari: infatti gli animali sono un patrimonio prezioso tanto nelle vallate provenzali che nel Polesine e nelle Lande francesi.
Le ricette tramandate direttamente dalle generazioni precedenti sono state adattate nel corso degli anni alle esigenze contemporanee. Oggi vengono riprodotte con gli ingredienti a attualmente disposizione e utilizzando strumenti e recipienti moderni. È quindi probabile che il pane di segale confezionato ai nostri giorni non abbia esattamente lo stesso gusto del pane cotto nel forno del villaggio nei secoli scorsi, che la farina prodotta dai mulini industriali modifichi il gusto dei ravioli o dei danderouols (gnocchi al cucchiaio) preparati in passato. È così che la tradizione e il gusto evolvono continuamente. Gli ingredienti di base della cucina delle vallate restano i cereali, gli ortaggi e la verdura, la frutta, le uova e, in misura minore, la carne. Come bevanda, oltre all’acqua, si bevono vini locali.
Giornate qualunque, giornate di festa
Il pane è rimasto per lungo tempo l’alimento principale. Veniva consumato in gran quantità, non tanto come accompagnamento dei piatti, ma piuttosto ammollato nel latte, nelle zuppe, nei brodi e nelle salse. Questa forma di consumo era resa necessaria dalla consistenza del pane, che veniva prodotto, a seconda dei luoghi, una volta alla settimana oppure ogni quindici giorni, e talvolta con una frequenza ancora minore. Il pane di frumento, il pane bianco, il più ricercato, era considerato un pane di lusso, il pane della festa. Il pane di tutti i giorni era il pane di segale (lou pan de bià), o, a seconda delle zone, un pane ottenuto dalla mescolanza di diverse farine (di orzo o di semola) alle quali veniva spesso aggiunta la crusca. La farina di vari cereali era usata comunemente per preparare la pasta fresca. In questo caso, l’impiego di una gran varietà di ingredienti nelle farciture ha dato vita a una quantità di piatti originali.
Su entrambi i versanti delle Alpi del Sud, le donne impastavano in occasione delle feste. Famosi sono gli esempi delle cuiette d’Entracque (gnocchi di patate), dei ravioli, delle lasagne, dei crouzet o sugelli (paste rotonde ripiegate al centro), o dei taiarìn, pasta lunga e fine diffusa nelle valli Roya, Vésubie e Ubaye e tipica anche delle vallate piemontesi...
Spesso si aggiungeva alle zuppe, oltre al pane ammollato, del riso importato dalla pianura piemontese. Si mangiavano minestre di verdura e, sovente, zuppe a base di latte e derivati arricchite con farina di cereali, riso, porri e altri ortaggi.
La polenta, ricavata dalla farina di mais importata anch’essa dalla pianura, era il piatto forte tutto l’anno, perché si conservava bene e costava poco. La si poteva preparare pura, oppure mescolando alla farina di mais, la farina di grano saraceno, il fourmentin, che dava alla polenta un colore scuro.
Gli animali allevati da ogni famiglia fornivano il maggiore apporto di origine non vegetale all’alimentazione. La carne di pecora, e soprattutto quella di vitello, erano riservate a occasioni speciali (Pasqua, Natale, nozze) perché gli animali servivano a soddisfare i bisogni della famiglia tutto l’anno (chi forniva latte, chi lana, chi calore durante l’inverno) e non potevano dunque essere sacrificati per la tavola. Le famiglie più benestanti potevano permettersi di abbattere tutti gli anni un maiale che avrebbe fornito i salumi per i giorni di festa. Alle proteine ricavate dagli animali allevati si aggiungeva la selvaggina. Nei pasti normali le donne di casa rimpiazzavano la carne con frittate e frittelle a base di uova, cipolle, verdura ed erbe aromatiche.
Le cipolle ripiene erano un piatto importante, tipico delle valli Vermenagna, Gesso e Stura: la cipolla veniva riempita con un impasto di carne macinata, riso e uova e cotta nel forno. Anche le zucchine erano adatte a essere farcite. La farcitura poteva essere utilizzata anche per altri piatti, come i barba juan (con le bietole) o i boursotou (farciture di riso, acciughe e porri) in Val Roya o i risuolas (cavolo, cipolla, patata) in Ubaye, frittelle ripiene dalla crosta tenera.
Un impasto a base di farina serviva a preparare diverse torte salate ripiene di zucca, di bietola o di spinaci (coltivati o selvatici), di uova e di formaggio grattugiato a scaglie. I pomodori, introdotti in tempi relativamente recenti, servivano a fare le salse e i sughi. Venivano utilizzati inoltre per farcire una torta salata tipica della Val Roya, chiamata tourtona Saorge e Fontan o boursouzea Breil, che veniva fritta in padella o cotta nel forno. La zucca veniva utilizzata dappertutto e permetteva la composizione di una sorta di polpettone - il cui nome si confonde con quello del suo contenitore, il tiàn - ricoperto di pane e formaggio grattato. Gli ortaggi verdi abbondavano come accompagnamento dei piatti, secondo numerosi modi di preparazione. Si trovano svariati tipi di insalata, dalle più semplici alle più elaborate, in tutte le vallate.
All’inizio dell’Ottocento le patate diventano uno degli ingredienti base dell’alimentazione alpina. Mescolate alla farina e alle uova, formano l’impasto per i gnocchi, che possono avere una forma arrotolata o meno. Ecco che nei gnocchi si trovano riuniti gli elementi di base della cucina alpina: patate e cereali. Con il tempo, inoltre, la qualità delle patate aumenta e diventa sempre più pregiata: particolarmente famosa è la varietà, ormai rara, della piatlina di Entracque.
Il pesce fresco di mare fresco non rientra, per ovvi motivi, tra gli ingredienti della cucina tradizionale montana, con la sola eccezione delle trote dei torrenti alpini. Alcune ricette impiegano tuttavia del pesce conservato sotto sale, come le acciughe o il merluzzo.
Il formaggio e i prodotti caseari in generale rappresentano insieme all’uovo i surrogati della carne. Le differenti vallate e i singoli paesi producono un’infinità di formaggi, freschi o stagionati. Oggi i formaggi vengono prodotti prevalentemente a partire dal latte vaccino, ma rimane una produzione di formaggi di latte di capra e di pecora. I prodotti caseari (formaggio, burro, latte) rappresentano nella cucina tradizionale il condimento per eccellenza. L’olio di oliva, molto costoso e molto prezioso, sostituisce raramente il burro.
I frutti non occupano una gran parte della dieta, salvo nelle basse e nelle medie valli dove si raccolgono pere, mele, ciliege e i piccoli frutti selvatici. Il frutto più importante è la castagna che, insieme alla noce, costituisceun pilastro dell’alimentazione alpina tradizionale. La castagna, grazie alla facilità della sua produzione e della sua conservazione, in molti casi ha sostituito i cereali fino a essere chiamata “il pane dei poveri”. Le castagne venivano consumate fresche (bollite nell’acqua o nel latte, oppure arrostite), oppure venivano fatte seccare in appositi seccatoi (secòu). Le castagne secche si conservavano per molti mesi e rappresentavano una preziosa riserva alimentare, capace di durare a lungo. Macinata, la castagna forniva una farina che era utilizzata al posto dei cereali per preparare la polenta, le zuppe e altri piatti tradizionali.
Le torte dolci compaiono in periodi relativamente recenti. Vengono prodotte in occasione dei principali avvenimenti famigliari: dolci ai mirtilli o al lampone, budini e mousse. Un’altra torta, farcita al brous, permette di utilizzare i prodotti dell’allevamento. Infine le bugìe, frittelle zuccherate, sono dolci particolari, riservati alle grandi feste del ciclo carnevalesco.
Il vino, in particolare il vino rosso, è indicato per accompagnare i piatti tradizionali. La vite non è una pianta adatta ai terreni in quota, ma qualche vitigno particolarmente resistente al freddo ha potuto essere coltivato nelle vallate piemontesi sui versanti meglio esposti, fino a quote massime di 800-900 metri. Se ne ricavava un vino di cattiva qualità e di bassa gradazione alcolica (la piquette).
In conclusione, si può dire che la dieta dell’alpigiano si basava essenzialmente su alimenti di sua produzione. Le carenze di proteine animali erano compensate in parte dalle farine, dai tuberi e, soprattutto, dai legumi - tutti prodotti che avevano il vantaggio di poter essere conservati a lungo.
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